Di Pastore Renato Giuliani a Roma
Mentre egli diceva queste cose, molti crederono in lui. Gesù disse allora ai Giudei che avevano creduto in lui: «Se dimorate nella mia parola, siete veramente miei discepoli; e conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Essi gli risposero: «Noi siamo progenie di Abrahamo e non siamo mai stati schiavi di nessuno; come puoi tu dire: “Diventerete liberi”?». Gesù rispose loro: “In verità, in verità vi dico: chi pratica il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non rimane per sempre nella casa; il figlio invece vi rimane per sempre. Se dunque il Figlio vi farà liberi sarete veramente liberi”.
Giovanni 8:30-36
Non accadeva spesso che le persone rispondessero positivamente al messaggio di Gesù. Gli antichi profeti avevano predetto che il Messia sarebbe stato “disprezzato e rigettato dagli uomini” (Isaia 53:3), e così fu. Quasi ogni volta che Gesù predicava, vi erano persone che complottavano “di come farlo morire”, tanto che nei vangeli c’imbattiamo continuamente in frasi del tipo: “non lo vollero ricevere”, “lo pregarono di allontanarsi dal loro territorio”, “cercarono di ucciderlo”, “presero delle pietre per lanciarle addosso a lui”, “raccolsero di nuovo le pietre per lapidarlo”. Emblematico fu quanto accadde a Nazaret, all’inizio del suo ministero itinerante: la gente si adirò in tal modo che “lo condussero fino al ciglio della sommità del monte, su cui la loro città era edificata, per precipitarlo giù” (Luca 4:28-29).
Il Vangelo che predicava Gesù non riscuoteva l’approvazione della gente. I suoi contenuti erano così diversi dal consenso generale, così opposti al comune sentire, che suscitavano reazioni di sconcerto, di scandalo, a volte anche di violenza. Il suo Vangelo scuoteva, perché metteva tutto in discussione, assolutamente. Ascoltare Gesù non era come attendere a una funzione religiosa: il suo annuncio metteva veramente in crisi, perché non si limitava a chiedere all’uomo un pio ossequio, ma esigeva un radicale ripensamento della realtà, una reale conversione a Dio. A tale chiamata alcuni rispondevano con un sincero ed umile “sì”, ma la maggior parte con un netto e risoluto “no”!
Possiamo quindi immaginare la sorpresa degli apostoli quando, a Gerusalemme, dopo aver ascoltato le sue parole, “molti crederono in Lui” (Giov 8:30). Sorprendente era sia il numero delle persone che aveva risposto positivamente al suo messaggio, sia il modo in cui avevano risposto. Non erano state meramente colpite delle parole di Gesù, o impressionate dai suoi miracoli, ma avevano “creduto in Lui”, si dicevano persuasi che Egli fosse il Messia, si confessavano suoi discepoli.
«Gesù disse allora ai Giudei che avevano creduto in lui: “Se dimorate nella mia parola, siete veramente miei discepoli; e conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”» (Giov 8:31). Queste parole dovettero lasciare di stucco gli stessi apostoli: implicavano che coloro che avevano creduto in Gesù non avevano ancora capito “la verità” e non erano ancora stati resi “liberi”. Eppure Egli aveva sempre detto che la liberazione, la salvezza, la vita eterna, si ricevono credendo in lui: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà mai fame e chi crede in me non avrà mai sete” (6:35); “Chi crede in me ha vita eterna” (6:47).
La problematica fondamentale
Tempo prima si era verificata una circostanza simile: “Ora, mentre egli si trovava in Gerusalemme alla festa della Pasqua, molti crederono nel suo nome vedendo i segni che faceva, ma Gesù non si fidava di loro” (Giov 2:23). Anche in questo caso c’era stata un‘attestazione di fede da parte di molte persone e una reazione piuttosto sobria da parte di Gesù: “… molti crederono nel suo nome… ma Gesù non si fidava di loro”. La ragione era evidente. La fede di queste persone si basava sui miracoli. Gesù aveva compiuto opere prodigiose e loro, “vedendo i segni che faceva”, avevano immediatamente dedotto che egli era il Messia. Il ragionamento era stato semplice e lineare: nessuno può fare le opere che Gesù compie, quindi Gesù dice la verità, quindi Gesù deve essere il Messia. Le premesse erano valide, il ragionamento logico, la conclusione inevitabile. Dov’era quindi il problema?
Il problema era che la vera fede non è semplicemente una deduzione logica basata su un’indiscutibile evidenza empirica, né una reazione emotiva suscitata dalla manifestazione di un evento soprannaturale. I miracoli di Cristo, per quanto straordinari, non erano intesi a costituire la ragione della fede. Il loro scopo era semplicemente di dimostrare che Gesù era il Messia, affinché le persone prestassero attenzione alle sue parole, capissero il suo straordinario messaggio e si convertissero a lui. La ragione per cui si crede, quindi, non sono i miracoli, ma è il Vangelo stesso, e riceverlo implica una vera e propria rigenerazione della vita. Tutto diventa chiaro, quindi: “Gesù non si fidava di loro, perché conosceva tutti, e perché non aveva bisogno che alcuno gli testimoniasse dell’uomo, perché egli conosceva ciò che vi era nell’uomo” (Giov 2:23-25). Nonostante queste persone affermassero di credere in Cristo, Cristo stesso non li considerava dei veri discepoli, perché conosceva il loro cuore e sapeva che non era stato mutato: “Perché l’Eterno non vede come vede l’uomo; l’uomo infatti guarda all’apparenza, ma l’Eterno guarda al cuore” (I Sam 16:7).
Ciò che segue nella narrativa di Giovanni, esemplifica questa fondamentale problematica: «Or c’era fra i farisei un uomo di nome Nicodemo, un capo dei Giudei. Questi venne da Gesù di notte e gli disse: “Maestro, noi sappiamo che tu sei un dottore venuto da Dio, perché nessuno può fare i segni che fai, se Dio non è con lui”. Gesù gli rispose e disse: “In verità, in verità ti dico che se uno non è nato di nuovo non può vedere il regno di Dio”» (Giov 3:1-3). Le parole di Nicodemo non avevano un vero valore, per questo Gesù non le considerò. Nicodemo aveva bisogno di essere rigenerato e diventare una persona nuova. Se un uomo vuole entrare nel regno di Dio, questa deve essere la prima cosa che deve verificarsi nella sua vita.
Il problema si radicalizzò qualche tempo dopo: «Allora la gente, avendo visto il segno che Gesù aveva fatto [moltiplicando dei pani per migliaia di persone], disse: “Certamente costui è il profeta che deve venire nel mondo”. Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, tutto solo» (Giov 6:14-15). Questi entusiasti ‘discepoli’ concepivano il Messia come un potente sovrano che avrebbe liberato il popolo d’Israele dal dominio romano, portato prosperità economica ed esaltato Israele sopra tutte le altre nazioni della terra. Non capivano che Gesù era più di un uomo, né comprendevano il vero fine per il quale era venuto nel mondo; ignoravano altresì che ravvedersi comporta una rottura radicale con il dominio del peccato, che credere significa riconoscere Cristo come Signore della propria vita e ricevere gratuitamente il perdono dei propri peccati. Il giorno seguente Gesù li mise davanti alla verità: “Voi mi cercate non perché avete visto segni, ma perché avete mangiato dei pani e siete stati saziati… Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà mai fame e chi crede in me non avrà mai sete… In verità, in verità vi dico: chi crede in me ha vita eterna. Io sono il pane della vita… Da quel momento molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui” (Giov 6:26, 35, 66).
La problematica ormai ci è chiara e – tornando al brano principale su cui stiamo riflettendo – possiamo capire perché Gesù disse a coloro che avevano creduto in lui: “Se dimorate nella mia parola, siete veramente miei discepoli; e conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Giov 8:31). Come tante altre persone, neanche queste avevano veramente capito il Vangelo. La loro era una fede superficiale, evanescente, e fu per questo che Gesù li esortò ad approfondire: perché approfondendo avrebbero veramente capito, e capendo avrebbero veramente creduto, e credendo sarebbero stati veramente liberati.
Uno schiavo che si crede libero
A questo punto, però, la situazione prese una brutta piega. I ‘discepoli’ che pochi istanti prima avevano confessato di credere in Gesù, gli si rivoltarono contro e gli dissero: «Noi siamo progenie di Abrahamo e non siamo mai stati schiavi di nessuno; come puoi tu dire “diventerete liberi”?» (Giovanni 8:33). In un primo momento risulta difficile comprendere questa reazione. Che cosa avevano da obbiettare queste persone? Gesù gli offriva la libertà, la vera libertà, quella che nessun altro poteva dare loro. Invece di contestare, avrebbero dovuto esultare e accogliere il suo straordinario dono. Eppure non lo fecero e per un’ovvia ragione. Gesù li aveva offesi! Offrendo loro liberazione, aveva implicato che essi non erano liberi, ma in uno stato di schiavitù. Indignati obiettarono: “Come osi offrirci la libertà? Noi siamo già liberi. Hai forse dimenticato chi siamo? Siamo progenie di Abrahamo, parte del popolo eletto di Dio e la libertà è una nostra prerogativa inalienabile. Noi non siamo mai stati schiavi di nessuno, quindi non abbiamo bisogno di essere liberati”.
Si ritenevano “liberi”, non in senso politico: nel corso dei secoli Israele era stato soggiogato da tutti grandi imperi della storia – egiziano, assiro, babilonese, persiano, greco – e al presente era soggetto al dominio di Roma. Intendevano “liberi” in senso interiore, come per dire: “Esteriormente abbiamo dovuto conformaci alle imposizioni dei nostri dominatori, ma interiormente non ci siamo mai piegati, non abbiamo mai perso la nostra dignità; abbiamo sempre mantenuto la testa alta, orgogliosi di essere dei circoncisi, di appartenere alla nazione eletta, di vivere secondo le tradizioni dei padri. Nonostante le apparenze, siamo sempre rimasti liberi, liberi dentro”.
«Gesù rispose loro: “In verità, in verità vi dico: chi pratica il peccato è schiavo del peccato”» (Giov 8:34). Spostando il discorso sul piano morale, Gesù pose davanti ad i suoi interlocutori la questione del peccato – non inteso in senso bigotto, come inadempienza di riti liturgici o violazione di pie tradizioni, ma in senso teologico, come ribellione contro Dio. I suoi interlocutori si ritenevano persone libere, ma solo perché non tenevano conto di questa terribile realtà. Pensavano al dominio imposto loro da Roma, senza considerare che vi era un potere ancora più potente e tirannico: il potere del peccato. Un potere che non attacca l’uomo dall’esterno, ma dall’interno della sua stessa natura; un potere che invade non uno spazio territoriale, ma le facoltà stesse dell’uomo; un potere che impone non un assoggettamento politico-sociale, ma una vera e propria schiavitù morale. Come Cristo aveva già detto in un’altra occasione: “È da dentro, dal cuore degli uomini che escono cattivi pensieri, fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, frode, lascivia, sguardo invidioso, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive escono da dentro e contaminano l’uomo” (Mar 7:14-22).
Ma perché Gesù definisce l’uomo “schiavo del peccato”? Non è l’uomo padrone del peccato? Non è lui che lo concepisce, lo elabora e lo attua? Non ne ha il pieno controllo? No, perché prima di essere un’azione malvagia compiuta dall’uomo, il peccato è una forza malvagia che risiede nell’uomo: una forza spasmodica che s’insinua nella mente, sollecita le passioni e perverte le facoltà; una forza persistente che adesca, seduce e corrompe; una forza dirompente che penetra, conquista e deturpa – una forza che domina! No, non è l’uomo ad avere potere sul peccato, ma è il peccato ad avere potere sull’uomo.
Una condizione universale
E non ci sono eccezioni, perché tale è la condizione di ogni essere umano. Scrive l’apostolo Paolo, sintetizzando quello che si dichiara in tutta la Bibbia: «Non c’è nessun giusto, neppure uno. Non c’è nessuno che capisca, non c’è nessuno che cerchi Dio. Tutti si sono sviati, tutti quanti si sono corrotti. Non c’è nessuno che pratichi la bontà, no, neppure uno» (Romani 3:10-12). Concetti arcaici? Affermazioni esagerate? Questioni superate? I fatti dimostrano il contrario:
“Andavo a ricercare dei viali ombreggiati, degli angoli nascosti, da dove potessi esibirmi da lontano davanti alle professioniste del sesso… Lo stupido piacere che provavo a denudarmi sotto i loro occhi non è descrivibile”.
Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) [1]
La stoltezza, l’errore, il peccato, l’avarizia
invadono le nostre anime e travagliano i nostri corpi,
e noi alimentiamo i nostri amabili rimorsi,
come i mendicanti nutrono i loro insetti.
Caparbi sono i nostri peccati, fiacchi i nostri pentimenti;
ci facciamo lautamente pagare le nostre confessioni,
e allegramente torniamo sul sentiero melmoso,
credendo di lavare con vili pianti tutte le colpe.
I fili che ci muovono son tenuti dal Diavolo!
Negli oggetti ripugnanti scopriamo attrattive;
ogni giorno verso l’inferno scendiamo d’un passo,
senza orrore, attraverso fetide tenebre.
Come un libertino povero che baci e mangi
il seno martirizzato d’una vecchia sgualdrina,
passando rubiamo un piacere clandestino
che spremiamo con forza come una vecchia arancia.
Se lo stupro, il veleno, il pugnale, l’incendio
non hanno ancor ricamato con piacevoli disegni
il canovaccio banale dei nostri pietosi destini,
è perché l’anima nostra, ahimè! non è abbastanza ardita.
Eccolo là il più brutto, il più malvagio, il più immondo!
Benché non dia in grandi gesti, né in alte grida,
volentieri farebbe della terra una rovina
e in uno sbadiglio inghiottirebbe il mondo;
è la Noia – Con l’occhio greve d’una involontaria lacrima,
sogna patiboli fumando la sua pipa orientale.
Tu lo conosci, lettore, quel mostro delicato
– ipocrita lettore – mio simile – mio fratello.
Charles Baudelaire (1821-1867) [2]
“Appena finita la cerimonia, quando mi ritrovai solo con mia moglie e mi resi conto che da quel momento il nostro destino sarebbe stato quello di vivere insieme, inseparabili, all’improvviso avvertii di non sentire per lei la minima amicizia, anzi mi resi conto di detestarla nel vero senso della parola”.
Piotr Ilyich Tchaikovsky (1840-1893) [3]
“Sono quasi riuscito ad ultimare un proposito per che molte persone, non ancora nate e sfortunate, un giorno deploreranno… [cioé] i miei biografi. Ho distrutto tutti i miei appunti degli ultimi quattordici anni, insieme a lettere, estratti scientifici e manoscritti di alcune mie relazioni. Delle lettere, solo quelle della famiglia sono state preservate. Le tue, mia cara, non sono mai state in pericolo… Tutti i miei pensieri e i miei sentimenti, sul mondo in generale e su me stesso in particolare, sono stati ritenuti indegni di continuare ad esistere… Non avrei potuto invecchiare o morire senza preoccuparmi di chi avrebbe potuto mettere le mani su questi vecchi documenti… Per quanto riguarda i biografi, che si angustino pure; non abbiamo alcun desiderio di rendere loro la vita facile. Ognuno di essi formulerà la sua opinione riguardo allo “Sviluppo dell’Eroe”, ed io già godo nel sapere che saranno fuorviati”.
Sigmund Freud (1856-1939) [4]
“Non è buono che mi rilassi troppo. Le forze che si agitano in me sono troppo violente, alcune di esse debbono essere legate con catene. Pensavo che ora fosse possibile sciogliere tutti i miei cani, ma alcuni sono rabbiosi e non è prudente lasciarli liberi”.
Bertrand Russell (1872-1970) [5]
“Non riesco a dimenticare e a darmi pace di aver reso mia moglie così infelice”.
Mahatma Gandhi (1869-1948) [6]
“L’ordine è sempre quello di fingere. Solo quando nasciamo e quando moriamo ci è permesso agire con onestà”.
Albert Einstein (1879-1955) [7]
“Vivo attualmente come i più spregevoli personaggi che mai mi abbiano fatto indignare in gioventù”.
Cesare Pavese (1908-1950) [8]
“Ogni volta che cambio moglie, quella di prima dovrei bruciarla. Così me ne libererei. E non mi starebbero tutte intorno a rendere la vita difficile… Uccidi la donna e cancellerai anche il passato che lei rappresenta”.
Pablo Picasso (1881-1973) [9]
“Ogni tanto divento una bestia. E allora non riesco a pensare ad altro che a bere, mangiare, dormire. Terribile! E allora soffro anche come una bestia, senza possibilità di riscatto interiore. In quei momenti sono in balia delle mie passioni e delle mie repulsioni. E allora è impensabile una vita autentica”.
Ludwig Wittgenstein (1889 – 1951)[10]
“Ho scoperto cose grottesche e terribili sul mio stesso carattere. Mi sono seduto e ho preso nota dei miei pensieri, così com’essi salivano nella mente… Non ci crederai, ma uno su tre erano pensieri di autocompiacimento… Mi ritrovo, per così dire, a posare davanti allo specchio tutto il giorno. Penso attentamente a ciò che dirò al prossimo studente (per il suo bene, ovviamente), per poi scoprire che sto pensando a quanto intelligente mi mostrerò e a quanto egli mi ammirerà. E poi, quando ti fai forza per porre fine a tale vanità, ti ammiri anche per questo. È come combattere l’hydra [il mostro terrificante che viveva presso nelle paludi dell’antica città di Lerna]… non sembra esserci mai fine. Onda su onda di autocompiacimento e autoammirazione”.
C.S. Lewis (1898-1963) [11]
“Non mi sono ancora deciso ad abbandonare la fornicazione, perché ne godo così tanto, e perché ancora coltivo l’illusione che di tanto in tanto si può fornicare senza nuocere a nessuno”.
Malcolm Muggeridge (1903-1990)[12]
“Questo sarebbe stato un buon secolo, se l’uomo non fosse stato tenuto sotto sorveglianza dal suo antico e spietato nemico, dalla specie carnivora votata alla sua distruzione, dalla bestia maligna e senza peli: dall’uomo. Uno più uno fanno due, questo è il nostro enigma. La bestia si nascondeva, improvvisamente ne abbiamo viste le sembianze, negli occhi nudi dei nostri vicini. Poi abbiamo colpito, preventivamente, per legittima difesa. Ho preso la bestia di sorpresa, ho colpito, un uomo è caduto, e nei suoi occhi morenti ho visto la bestia, ancora viva: me stesso”.
Jean-Paul Sartre (1905-1980)[13]
“Carissima Barbara… Mi sento così solo. I miei pensieri sono prima gradevoli, poi meschini, poi perversi, poi penitenti, poi gradevoli… Ti prego, perdona questa lettera così caotica. Sono un po’ ubriaco. Sto bevendo parecchio ultimamente. Vedi, come te, neanche io ci capisco più nulla. Che sorte balorda, noi esseri umani… Me ne devo andare da questo orrido appartamento. Non vado d’accordo con nessuno. Mi fa sentire bene constatare che nessuno mi vuole”.
James Dean (1931-1555)[14]
È ironico che un uomo che ha fatto così tanto per promuovere la pace nel mondo, abbia spesso recato dolore e danno ad altri. Lennon si espresse apertamente riguardo alla dicotomia fra la sue grandi parole e le sue azioni: “Ecco perché parlo sempre di pace”, spiegò. “Perché è la gente più violenta che calca l’onda dell’amore e della pace. Esattamente l’opposto di quello che si è in realtà.
John Lennon (1940-1980) [15]
Era il ’59, anno in cui cominciò a bere; di lì a qualche tempo sarebbe diventato alcolista, aggiungendo così un’altra disperazione al pesante fardello che, in un certo senso, si era voluto imporre.
Fabrizio De Andrè (1940-1999)[16]
È difficile leggere queste citazioni senza interrogarsi sulla condizione umana. I personaggi che abbiamo citato non sono dei balordi, anzi. La maggior parte di essi appartiene alla categoria dei ‘grandi’ della storia: grandi letterati, grandi poeti, grandi compositori e via dicendo… pittori, filosofi, scienziati, psicoanalisti, giornalisti, attori, cantanti. Come gli eroi mitologici dell’antichità, sono stati mitizzati e posti sull’olimpo delle icone della cultura occidentale. Eppure, quando studiamo le loro vite, leggiamo le loro lettere e sfogliamo i loro diari, vi troviamo falsità, disonestà, tradimenti, abbandoni, perfidie, egoismi, vizi, perversioni, violenze, abusi, scandali. Non stiamo parlando dell’uomo primitivo, ma dell’uomo moderno; stiamo parlando, in altre parole… di noi stessi. Forse non tutti giungono a commettere certe nefandezze, ma l’umanità condivide una stessa natura, ed è una natura corrotta. Non abbiamo tutti pensieri maligni, sentimenti cattivi, desideri illeciti? L’orgoglio, l’egoismo e la falsità non sono mali comuni? Non abbiamo tutti dei lati tenebrosi, delle vergogne segrete, degli ‘scheletri nascosti negli armadi’? Chi può dirsi esente dal peccato? Chi non porta dentro rimorsi di coscienza? Chi non prova dei sensi di colpa? Certo, nella società si distingue fra religiosi e profani, idealisti e materialisti, socialisti e capitalisti; ma tutte queste antitesi non sono così fondamentali come le si vuol fare credere, perché sono antitesi all’interno di un’umanità decaduta. Siamo tutti peccatori. Il fatto determinante non sono le variazioni di grado che ci distinguono, ma la condizione essenziale che ci accomuna.
Non chieggo si ponga su questa
Mia tomba epitaffio gentile.
A dirvi soltanto mi resta:
– Fui uomo – fui vile.
Eugenio Montale (1896-1981) [17]
Solo il Vangelo dice la verità
Che cosa ci fa capire tutto ciò? In primo luogo, che solo il Vangelo dice la verità sulla reale condizione dell’uomo. Le filosofie e ideologie umane possono in un primo momento impressionare, ma se si scava a fondo si vedrà che evadono le questioni fondamentali.
Si consideri il problema della violenza e della guerra nel mondo. Il grande storico Edward Gibbon disse: “La storia è poco più di un registro dei crimini, delle follie e delle tragedie dell’umanità”. Aveva ragione. Se consideriamo la storia umana nel suo insieme, essa si presenta come un susseguirsi d’imperi, ognuno dei quali sorge, distrugge l’impero dominante, si sostituisce ad esso, per poi essere a sua volta distrutto e sostituito da un nuovo impero. Ecco quindi il succedersi degl’imperi egiziano, assiro, babilonese, persiano, greco e romano, in un susseguirsi di conflitti e devastazioni senza fine. Ora, di tutto ciò è fondamentale chiederci il perché. Perché centinaia di migliaia di uomini seguirono Alessandro il Grande nel suo folle disegno di conquistare il mondo? Perché, per ben cinquecento anni, i Romani sistematicamente attaccarono, soggiogarono e sfruttarono tutti popoli dell’area mediterranea e oltre? Perché poi le orde barbare (Unni, Ostrogoti, Visigoti Vandali, ecc.), invasero l’Impero Romano portando ovunque distruzione e saccheggio? Perché nel VII sec. le popolazioni arabe intrapresero una campagna di conquista con l’intento di assoggettare tutto il mondo allora conosciuto? Perché per ben mille anni l’Oriente e l’Occidente si combatterono ferocemente? Perché nel XIII sec. i popoli mongoli si prestarono ai disegni imperialisti di Gengis Kan, perpetrando massacri e carneficine in Asia e in Europa orientale? Perché, con il sorgere degli stati nazionali, le nazioni europee si diedero a combattere le une contro le altre, cercando di sopraffarsi a vicenda? Perché il popolo francese sostenne i folli desideri di dominio universale che ribollivano nel cuore di Napoleone, causando venti anni di guerre e devastazioni in tutta Europa? Perché, tra il XVI e XIX secolo, le nazioni europee prima e gli Stati Uniti poi, schiacciarono sistematicamente tutte le popolazioni native dell’America, perpetrando un genocidio in cui persero la vita milioni di esseri umani? Perché, tra il 1870 e il 1914, le avide nazioni europee si volsero alla colonizzazione del mondo, spartendosi l’intera Africa e vaste regioni dell’Asia e dell’Australia? E perché, nel XX secolo, queste stesse potenze si volsero le une contro le altre, scatenando due devastanti guerre mondiali, nelle quali persero la vita settanta milioni di esseri umani? E perché ancora oggi le guerre continuano a proliferare e il mondo conosce “più violenza e instabilità che in qualunque altro momento dalla fine della seconda guerra mondiale”?[18]
Tutti questi fatti li troviamo descritti nei libri di storia, i quali però non ci danno alcuna spiegazione del perché l’umanità sia così. Anche gli ‘esperti’ non hanno spiegazioni. Parlano di “dinamiche storiche”, “forze sociali”, “ideologie fuorvianti”, “politiche irresponsabili”, ma in definitiva non toccano la radice del problema. Nel suo libro La grande storia della guerra: dalla preistoria ai giorni nostri – si noti il titolo! – John Keegan sostiene che le guerre avvengono perché nel cuore umano si annidano delle “nicchie dove l’io cancella il fine razionale, dove regna l’orgoglio, dove domina l’emozione, dove l’istinto è sovrano”[19]. Ma chiediamo: perché l’uomo si lascia dominare da questi istinti malvagi, quando sa che porteranno distruzione e miseria? Perché nel corso dei millenni l’uomo non è mai riuscito a dominarli? E come può ciò che si nasconde in una piccola “nicchia” del cuore prendere il sopravvento sull’intera persona, dilagare all’esterno e devastare l’intera umanità? A queste domande nessuno sa dare una risposta. Nessuno tranne Gesù. Solo Lui osa immergersi senza remore nel fango che scorre nelle nostre vene fino a giungere alla radice del nostro terribile male. Solo Lui ha la franchezza di dirci che il male non si nasconde in una “nicchia” del nostro cuore, ma ha pervaso ogni facoltà parte della nostra natura. Solo Lui ha l’amore di dirci che non siamo liberi ma schiavi, schiavi del peccato. In fondo, è anche per questo che Gesù non lo abbiamo amato: “La luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno amato le tenebre più che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Infatti, chiunque fa cose malvagie odia la luce e non viene alla luce, affinché le sue opere non siano manifestate” (Giovanni 3:19-20).
Una questione che non possiamo eludere
In secondo luogo, il vangelo ci fa capire che la questione della schiavitù umana al peccato non può essere elusa. Possiamo tentare di eluderla, limitandoci a parlare di cose ‘positive’ che aiutano a dimenticare le tristi circostanze della vita. Possiamo cercare di rimuoverla dalla nostra sfera cosciente, sopprimendo i sensi di colpa, ricorrendo magari a farmaci, alcol, droga o qualunque altro mezzo che ci aiuti a dimenticare. Possiamo addirittura negarla, disconoscendo l’esistenza di valori morali assoluti stabiliti da Colui che è l’Assoluto. Ma tutti questi tentativi di sfuggire alle nostre responsabilità morali sono destinati a fallire. A fallire collettivamente, perché l’umanità è ormai giusta ad un punto di crisi storica tale che, come ha scritto di recente il noto storico Eric J. Hobsbawn, le stesse strutture delle società umana “sono sul punto di essere distrutte… Se l’umanità deve avere un futuro nel quale riconoscersi, non potrà averlo prolungando il passato o il presente. Se cerchiamo di costruire il terzo millennio su questa base, falliremo. E il prezzo del fallimento, vale a dire l’alternativa ad una società mutata, è il buio[20]“. Ma falliremo anche individualmente, perché l’insopprimibile voce della nostra coscienza continuerà a ricordarci i nostri illeciti morali, ed un giorno, volenti o nolenti, saremo obbligati a darne conto a Colui che ci ha creato. E come potremo, allora, reggere al suo giudizio? Come potremo scampare alla sua condanna? “Non vi è alcuna creatura nascosta davanti a Lui, ma tutte le cose sono nude e scoperte agli occhi di Colui al quale dobbiamo rendere conto” (Ebrei 4:13).
Il padrone è più forte dello schiavo
“Ma capitano non te lo volevo dire
C’è in mezzo al mare una donna bianca,
Così enorme nella luce delle stelle così bella,
Che di guardarla uno non si stanca”.
Questa nave fa duemila nodi, in mezzo ai ghiacci tropicali,
ed ha un motore di un milione di cavalli
che al posto degli zoccoli hanno le ali.
La nave è fulmine, torpedine, miccia,
scintillante bellezza, fosforo e fantasia,
molecole d’acciaio, pistone, rabbia, guerra lampo e poesia.
In questa notte elettrica e veloce, in questa croce di Novecento,
il futuro è una palla di cannone accesa e noi la stiamo quasi raggiungendo.
E il capitano disse al mozzo di bordo
“Giovanotto, io non vedo niente.
C’è solo un pò di nebbia che annuncia il sole.
Andiamo avanti tranquillamente”.
Francesco De Gregari, I muscoli del capitano (1982)
L’urto fu devastante! Tanto che la nostra titanica ed inaffondabile modernità s’inabissò, portando con sé tutte le nostre illusioni umanistiche. “Ricordo il ventesimo secolo soltanto come il secolo più terribile della storia occidentale” (Isaiah Berlin); “Non posso fare a meno di pensare che questo deve essere stato il secolo più violento nella storia dell’umanità” (William Golding). Sì, le due guerre mondiali, i campi di sterminio, le distruzioni atomiche, i genocidi e le tante altre aberrazioni del ventesimo secolo ci hanno lasciati sconvolti a frugare fra le rovine di un’umanità vilipesa. Ci vantavamo dei nostri pensieri penetranti e delle nostre ampie visuali, ma su di noi presto è scesa la notte. Nonostante il progresso tecnologico, l’uomo è rimasto primitivo, violento, distruttore. Le conquiste della scienza sono diventate strumenti di morte. All’ottimismo è subentrato il pessimismo, alle grandi prospettive di progresso il terrore dell’annientamento universale:
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte[21],
– t’ho visto – dentro il carro di fuoco[22], alle forche,
– alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
“Andiamo ai campi”. E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate o figli, le nuvole di sangue[23]
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore[24].
Salvatore Quasimodo, Sei ancora quello della pietra e della fionda (1945)
E i figli insorsero contro i padri, negli anni Sessanta, contestando le ingiustizie della società moderna, l’ipocrisia dei conformismi di maniera, la retorica dei valori smentiti dal primato degli interessi, esternando il loro dissenso senza più remore o sensi di inferiorità rispetto ad un mondo adulto che sentivano radicalmente falso. Dovevano opporsi per sfuggire agli ingranaggi di un sistema che li stava annientando. Nel ’68, il venticinquenne Francesco Guccini scriveva il loro manifesto generazionale:
Ho visto la gente della mia età andare via,
lungo le strade che non portano mai a niente,
cercare il sogno che conduce alla pazzia,
nella ricerca di qualcosa che non trovano
nel mondo che hanno già,
dentro alle notti che dal vino son bagnate,
dentro alle stanze da pastiglie trasformate,
lungo le nuvole di fumo, nel mondo fatto di città,
essere contro od ingoiare la nostra stanca civiltà,
e un dio che è morto,
ai bordi delle strade dio è morto
nelle auto prese a rate dio è morto
nei miti dell’estate dio è morto.
Mi han detto che questa mia generazione ormai non crede
in ciò che spesso han mascherato con la fede
nei miti eterni della patria o dell’eroe
perché è venuto ormai il momento di negare tutto ciò
che è falsità le fedi fatte di abitudine e paura
una politica che è solo far carriera
il perbenismo interessato la dignità fatta di vuoto
l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto
e un dio che è morto
nei campi di sterminio dio è morto
coi miti della razza dio è morto
con gli odi di partito dio è morto.
Ma in una cosa i figli non smentirono i padri: la fede nelle capacità umane. Volevano un mondo diverso e questo mondo lo avrebbero costruito loro stessi – i giovani – con le loro forze, il loro entusiasmo, i loro ideali:
Ma penso che questa mia generazione è preparata
a un mondo nuovo e a una speranza appena nata
ad un futuro che ha già in mano, a una rivolta senza armi
perché noi tutti ormai sappiamo
che se dio muore e per tre giorni e poi risorge
in ciò che noi crediamo dio è risorto
in ciò che noi vogliamo dio è risorto
nel mondo che faremo dio è risorto.
L’illusione durò poco. Già agl’inizi degli anni Settanta il movimento poteva dirsi esaurito, e principalmente per cause interne: assenza di un fondamento, mancanza di contenuti, deriva esistenziale, uso di droghe, contrasti interni. Con orrore i giovani dovettero prendere atto di non essere per nulla migliori dei padri che tanto avevano contestato. Fu un colpo devastante, anche perché, crollato questo ultimo mito, si ritrovarono davanti al vuoto più assoluto. Dilagarono senza rimedio il cinismo, la confusione, la paura, l’ambiguità, la disperazione.
Si entrò così definitivamente nella post-modernità, dove vige il radicale disconoscimento di qualsiasi verità assoluta e valore universale, ma si accetta come incontrovertibile dato di fatto la caducità, la frammentazione e il caos dell’esistenza umana:
“Giornate senza senso, come un mare senza vento,
come perle di collane di tristezza…
Negli angoli di casa cerchi il mondo
Nei libri e nei poeti cerchi te
Ma il tuo poeta muore e l’alba non vedrà…
Ti guardi nelle mani e stringi il vuoto
Se guardi nelle tasche troverai
Gli spiccioli che ieri non avevi
Ma il tempo andato non ritornerà”.
Francesco Guccini, L‘isola non trovata (1970)
“Mamma, toglimi questa benda, non la posso più portare
Si è fatto troppo buio e non riesco più a vedere”.
Bob Dylan, Knock, knock, knock on heaven’s door (1973)
“E tutte queste informazioni di Vincent
mi vanno intorno e non mi dicono perché.
E tutte queste informazioni di Vincent
girano in tondo e non mi spiegano cos’è che muore”.
Francesco De Gregari, Informazioni di Vincent (1974)
“Allora, pensi di saper distinguere il paradiso dall’inferno?…
Siamo solo due anime sperdute, che nuotano in una boccia di pesci.
Anno dopo anno corriamo sullo stesso vecchio terreno.
E cosa abbiamo trovato? Le solite vecchie paure”.
Pink Floyd, Wish you were here, 1975
“Polvere al vento, siamo solo polvere al vento”.
Kansas, Dust in the wind (1977)
“Mi pare che i ragazzi cerchino in noi [artisti] delle certezze e questo è pericoloso, perché noi siamo pieni di dubbi… ti invitano a tenere mezze conferenze nelle università, sinceramente mi domando: ma che gli vado a dire? Vado a dire che sono insicuro quanto loro, forse più di loro, che ho anch’io bisogno di certezze”.
Fabrizio De André (1992) [25]
“Vivere ed invecchiare che senso ha?”.
Paolo Conte, intervista (1998) [26]
“Non posso dare soluzioni ai problemi di nessuno perché non ne ho… Non do risposte, riesco solo a fare domande”
Marco Masini, intervista (1998) [27].
“Sono talmente disperato che spero, che spero che il cielo tramonti”.
Vasco Rossi, Cosa vuoi da me (2004)
La ragione del nostro fallimento
Da cosa deriva questa desolazione esistenziale che pervade la nostra epoca? La risposta la troviamo in queste parole di Cristo: “Come il tralcio non può da sé portare frutto se non dimora nella vite, così neanche voi, se non dimorate in me. Io sono la vite, voi siete i tralci; chi dimora in me ed io in lui porta molto frutto, poiché senza di me non potete fare nulla” (Giovanni 15:4-5). Il legame più vitale in assoluto è quello che l’uomo ha con Dio. A prescindere da questo legame, noi siamo come tralci separati dalla vite: senza vita, senza frutto, senza scopo, senza speranza. Questo c’è stato detto, ma noi non abbiamo voluto ascoltare. Perseguendo ostinatamente l’illusione di una nostra ‘autonoma’, abbiamo voluto recidere questo vitale legame. Pensavamo così di trovare libertà, felicità e vita, invece abbiamo trovato schiavitù, miseria e morte. E non poteva essere altrimenti, perché senza Dio la vita umana non può che corrompersi, deteriorarsi e morire, proprio come un tralcio reciso dalla vite:
Gesù, ci dissero un giorno che eri morto,
morto per sempre insieme a Dio, tuo padre
che governa il cielo e il tempo.
Eri morto ci dissero i padri,
morto come muore ogni mito sulla terra…
Così fu il vuoto intorno a noi e dentro noi.
Fu come quando il vento impazzisce e tutto spazza via.
Soli restammo chiusi tra la noia e la paura.
Aggrappati a paradisi artificiali
trovati in una stanza di luce nera.
Mia Martini, Gesù è mio fratello (1971)
Sì, perché Gesù non è una possibilità accanto ad altre possibilità. A prescindere da Lui, per noi non c’è che il buio. Abbiamo fatto tutto il possibile per negarlo. Quante false filosofie e ideologie abbiamo ideato! Quante illusioni abbiamo perseguito! Quanti disastri abbiamo compiuto! E tutto per non riconoscere Cristo come Fondamento della nostra esistenza, Risposta ai nostri più profondi interrogativi, Fonte di ogni vera giustizia, Ragione stessa della vita:
“Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà mai fame e chi crede in me non avrà mai sete” (Giovanni 6:35).
“Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Giovanni 8:12).
Dio avrebbe potuto abbandonarci alle conseguenze del nostro rifiuto, ma non l’ha fatto. Al contrario, ci ha perseguito generazione dopo generazione, abbattendo tutti i nostri idoli, smascherando tutte le nostre illusioni, palesando l’assurdità di tutte le nostre utopie. Perché? Per farci capire quanto assurda fosse la nostra pretesa di autonomia e quanto disperata la nostra condizione senza di lui. In altre parole, Dio ci ha chiuso tutte le porte, ci ha sbarrato tutte le vie d’uscita, per portarci nuovamente davanti a questa parola: «Se dunque il Figlio vi farà liberi sarete veramente liberi»!
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” Ritornare a Dio: La Nostra Sola Speranza,” scrivendo a:
[1] Philippe Brenot, Geni da legare, Casale Monferrato, Piemme, 1997, p. 138.
[2] Charles Baudelaire, Tutte le poesie, Roma, Newton Compton, 1972, pp. 49-51
[3] Claudio Casini/Maria Delogu, Cajkovskij, Milano, Bompiani, 2005, p. 186.
[4] Frank J. Sulloway, Freud, Biologist of the Mind, New York, Basic Books, 1979, p. 7.
[5] Ray Monk, Bertrand Russell. The spirit of solitude, London, Jonathan Cape, 1996, p. 257.
[6] M.K. Gandhi, La mia vita per la libertà, Roma, Newton Compton editori, 1986, p. 35.
[7] Roger Highfield e Paul Carter, Le vite segrete di Albert Einstein, Padova, Franco Mussio Editore, 1994, p. 154.
[8] Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, T orino, Einaudi, 2000, p. 85.
[9] Arianna Stassinopoulos, Picasso. Creatore e distruttore, Milano, Bur, 2001, p. 203).
[10] Ray Monk, Ludwig Wittgenstein, Bologna, Bompiani, 2000, pp. 151-152.
[11] R.L. Green e W. Hooper, C.S. Lewis, London, HarperCollins, 2002, pp. 104-105.
[12] Ian Hunter, Malcolm Muggeridge. A life, London, Collins, 1980, p. 120.
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